Liceo Classico "Don Cavina" Randazzo

2014/12/18

di Flavia Di Silvestro

È da poco trascorsa la "Giornata Mondiale per l'eliminazione della violenza sulle donne" celebrata ogni anno il 25 Novembre, ma sono ancora molte le piazze italiane le cui vetrine sono ricoperte di immagini di scarpe rosse: possono essere ballerine, stivali o persino sneakers, non ha alcuna importanza è sufficiente che siano rosse; rosse come quelle che indossò l'artista Elina Chauvet in occasione di un'installazione artistica pubblica in Texas nel luglio del 2012, per ricordare le centinaia di donne uccise nella città messicana di Juarez, diventate simbolo della lotta mondiale contro la violenza sulle donne.
Una battaglia, questa, la cui fine è ancora lontana, così sembra, alla luce dei recenti dati ʻsfornatiʼ dal Ministero dell'Interno che fotografano la situazione al 31 luglio di quest'anno. Infatti, è stato registrato un preoccupante aumento rispetto all'anno precedente, dato che diventa ancora più allarmante se consideriamo che il 2013 era già stato definito ʻanno neroʼ per le donne. Rilevati aumenti sia dei casi di violenza che di quelli di assassinio nonostante l'introduzione di nuove norme. Se gli omicidi in generale calano, quelli delle donne fanno eccezione, visto che sono 153 quelle uccise quest'anno (quattro in più rispetto al 2013). Vittime soprattutto mogli e fidanzate: 72 le donne uccise dai propri compagni dall'agosto 2013 al luglio del 2014 (27 in più rispetto ai 12 mesi precedenti). È sconcertante come ancora oggi, mentre la medicina fa passi da gigante nel debellare le malattie più terribili, la principale causa mondiale di morte per le donne di età compresa fra i 16 e i 60 anni sia la violenza in famiglia! Inutile cercare di sminuire il fenomeno con frasi del tipo:  «la violenza domestica non è poi così diffusa» o ancora: «nel mio quartiere gli episodi di violenza domestica sono rari», la violenza domestica è di fatto parecchio frequente a tutti i livelli sociali e spesso non riconosciuta come tale, anche perché i segni di questi soprusi possono essere facilmente camuffati con semplici e insospettabili scuse. Inoltre, tale forma di violenza viene spesso sottovalutata sulla base del proprio vissuto, per esempio: una donna che sin da piccola è stata abituata a rispettare il ruolo dei genitori ʻa suon di schiaffiʼ, è  maggiormente portata a giustificare il marito violento come se vedesse nelle percosse una sorta di manifestazione d'amore. Da questa concezione prende le mosse la neonata campagna di sensibilizzazione promossa  dal Dipartimento per le Pari Opportunità con il contributo della Commissione europea, intitolata #cosedauominiL'obiettivo dell'iniziativa è naturalmente quello di porre un freno alla violenza di genere, ma affronta la tematica in maniera del tutto innovativa, rivolgendosi per la prima volta al mondo maschile nella convinzione che un mutamento di mentalità sia necessario per arginare il fenomeno della violenza sulle donne. Sicuramente un'iniziativa positiva per rendere possibile, anche in un'epoca di provvedimenti lenti e spesso contraddittori, il cambiamento.

Posted on giovedì, dicembre 18, 2014 by Unknown

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di Giulia Mannino

L’uomo parla da sempre. Il suo bisogno di parlare si manifesta sin da quando è  un neonato. Dapprima, tramite il pianto e strumenti non-verbali, indica, combina suoni e impara a capire se hanno effetto. Poi, con i balbettii, le prime parole: smette di indicare, capisce che ogni oggetto ha il suo nome e comincia a costruire le prime frasi. Così, pian piano, acquisisce sempre più vocaboli. Crescendo, il bambino non solo impara a parlare, bensì a scegliere le parole. In cosa sta la differenza? Imparare a parlare significa conoscere i nomi degli oggetti, i verbi, formulare una frase in modo corretto; scegliere le parole significa sapere come usarle per esprimere al meglio i pensieri che si vogliono comunicare. L’arte di sfruttare le parole giuste a proprio favore, infatti, è da sempre stata al centro di molte filosofie della civiltà greca e successivamente romana. Esprimere al meglio i nostri pensieri, il pensiero, il lògos, fa pensare ai filosofi greci. Eraclito denominava ciò che riteneva il principio di tutte le cose, ossia il fuoco, lògos, perché  primo  principio fisico di tutte le cose e  legge universale che le governa. E come non pensare ai sofisti? L’importanza della parola nella filosofia è una delle grandi scoperte dei sofisti, i maestri della retorica. Se per Eraclito il lògos é legge divina, universale ed in fieri, che governa il divenire di tutta la realtà, per i sofisti esso diventa un vero e proprio strumento di persuasione. La retorica, la dialettica, l’antilogica e l’eristica sono tutte arti che, in qualche modo, fanno sì che il sofista prevalga sull’interlocutore. La “parola sofistica” combatte per la propria tesi, vera o falsa che sia. La parola ci distingue dagli altri esseri viventi. Ogni singola parola che pronunciamo è importante: possiamo dire la stessa cosa, ma con parole diverse; possiamo con essa evocare immagini, scenari; possiamo influenzare gli altri ed è proprio nel momento in cui interagiamo con gli altri che ci  rendiamo conto di quanto importante sia la parola. Il discorso politico è forse quello che  rappresenta meglio il potere del linguaggio. Con i loro discorsi articolati, specie durante le campagne elettorali, i politici tentano di convincere i cittadini e ci riescono. Ciò che si ascolta sembra vero e possibile, ma accade spesso che le promesse fatte si rivelino solo “parole su parole”. Un ruolo importante, naturalmente, la parola ha poi nella scuola perché ciò che i giovani apprendono dipende in parte dal modo in cui viene loro insegnato. La parola ci rende liberi ma senza dimenticare che “la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri”. È vero che le parole sono armi da sfruttare a proprio vantaggio, ma proprio in quanto armi possono ferire. Dobbiamo sempre ricordarci che il nostro interlocutore è una persona, degna di rispetto tanto quanto lo siamo noi. Insulti, rimproveri, litigi, minacce sono tutte forme di violenza verbale, problema da non sottovalutare: i traumi psicologici talora possono fare più male di quelli fisici e rivelarsi più duraturi. Immaginiamo che le parole siano dei semi: dobbiamo fare molta attenzione in quello che piantiamo, perché quando questi semi cresceranno, metteranno radici nelle persone in cui li abbiamo piantati. Mi sembra particolarmente adatta una frase di Nelson Mandela: “Non è mia abitudine usare le parole con leggerezza. Se 27 anni di carcere mi hanno insegnato qualcosa, è che il silenzio della solitudine ci può far capire quanto sono preziose le parole e quanto davvero possono cambiare il modo in cui le persone vivono e muoiono”. Davvero meraviglioso e vasto il mondo delle parole: possiamo sceglierne in grande quantità e, senza ferire, usarle per dare forma ai nostri pensieri.


Posted on giovedì, dicembre 18, 2014 by Unknown

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2014/12/11

di Rita Calabrò

Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov è andato in scena dal 21 novembre al 7 dicembre 2014 al Teatro Stabile di Catania. Traduzione e regia a cura del direttore stesso del teatro, Giuseppe Dipasquale.
La scena è ambientata in Russia dove la tranquillità di una famiglia aristocratica è minata dalla morte del figlio minore. A seguito di ciò, la madre Ljubov’Andreevna Ranevskaja, chiamata semplicemente Liuba, scappa in Francia dove verrà raggiunta dalla figlia Anja. Dopo esser rimaste a Parigi per circa 3 anni e aver scialacquato tutti i propri averi, le due donne decidono di ritornare nel paese natale. A causa dei debiti contratti il giardino, che delimita l’area intorno la casa, rischia di essere messo all’asta. Ad avere un ruolo predominante è proprio il giardino che, nella prima parte dello spettacolo, si configura come un protagonista invisibile, ma che via via prenderà forma fino a quando, nel terzo atto, i suoi tronchi saranno presenti in scena. Il giardino rappresenta il passato, i debiti e i tormenti dell’anima dei personaggi. Quindi, nel momento in cui esso viene venduto insieme a tutta la casa, i protagonisti sentiranno morire dentro sé una parte di loro stessi, ma poi proveranno un senso di liberazione mentre si aprono loro nuove vie nei meandri della vita.
Oltre al senso del tempo e all’importanza rivestita dall’infanzia in contrasto con l’amarezza e le disillusioni che animano l’età adulta, un altro tema presente nella commedia è l’emancipazione dei servi della gleba in Russia, che solo grazie ad Alessandro II erano riusciti ad ottenere delle libertà. A tal proposito, significativo è il personaggio di Ermolaj Alekseeviè Lopachin, il cui padre era stato schiavo della famiglia di Liuba. Egli, grazie alle nuove libertà concesse, ha la possibilità di riscattare se stesso e i suoi avi. In virtù della propria determinazione, riesce ad arricchirsi e non a caso sarà proprio lui a comprare all’asta il giardino dei ciliegi. Questo inatteso finale simboleggia da un lato il declino dell’aristocrazia, dall’altro l’ascesa dei nuovi proprietari terrieri, gli ex servi della gleba che, dopo secoli di soprusi e di angherie, possono finalmente riacquistare la propria dignità.
Curiosità: “Il giardino dei ciliegi” nasce come una commedia, ma già i registi, che per primi ne curarono la messa in scena nel 1909 , andarono a marcare il carattere amaro della vicenda, oscurando gli elementi di farsa. Ciò fece irritare Anton Čechov, ma effettivamente, nel corso del Novecento, anche altri registi preferirono dare maggior rilievo al carattere tragico.
Nello spettacolo a cura di Giuseppe Dipasquale si evince invece un perfetto equilibrio tra il comico e il tragico.
Un elemento che molto colpisce lo spettatore è la scelta di far interpretare tutti i personaggi da attori che dimostrano più anni rispetto a quelli effettivi di ogni personaggio. Un caso emblematico è costituito da Anja e Varja, le figlie di Liuba, rispettivamente di diciassette e ventiquattro anni, interpretate da attrici di età maggiore. Gli unici due personaggi che vengono rappresentati giovani sono i camerieri Duniaša e Jaša: la prima che sogna ad occhi aperti l’amore, il secondo amante della vita in ogni sua sfaccettatura. Entrambi sono gli unici che non soffrono e non sono tormentati, a differenza di tutti gli altri dei quali non si rispetta l’età, quasi a voler sottolineare come i pesi e le angosce che turbano la loro anima causano un invecchiamento precoce.

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di Giulia Mannino

I 161 paesi membri dell’Unesco, durante la riunione del 24 Novembre, tenutasi a Parigi, hanno votato all’unanimità: la vite ad alberello dello Zibibbo, coltivata nell’isola di Pantelleria, entra a far parte del patrimonio dell’umanità. Grande la soddisfazione del ministro Maurizio Martina, titolare delle politiche agricole. Tale coltivazione avviene con la creazione di buche nel terreno, profonde circa 20 centimetri, nel cui interno il vigneto prende forma di piccoli alberelli. Prima pratica agricola riconosciuta dall’Unesco e sesto bene italiano con tale riconoscimento, è un trionfo per la bellissima isola e le sue secolari tradizioni.

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di Giulia Mannino

Era la notte tra il 2 e il 3 Dicembre 1984 quando una cisterna di oltre 40 tonnellate di isocianato di metile, esplodendo in una fabbrica americana di pesticidi, riversava nella città di Bophal, in India, una nube tossica. Migliaia furono le morti immediate e, strettamente legate all’evento, altrettante le vittime successive. Fu considerata la più grande catastrofe industriale di tutti i tempi e, nonostante siano passati ben 30 anni, la situazione non sembra essere cambiata: nei vent’anni successivi al disastro è aumentato il tasso di mortalità e pare che i prodotti chimici, ancora presenti nel complesso abbandonato, continuino a inquinare l’area a causa della mancanza di interventi di bonifiche.

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